Ripubblichiamo da Ecor.network
Premessa:
In occasione del workshop "Policing Extractivism: Security, Accumulation, Pacification", tenutosi al Melendugno nell'ottobre 2018, abbiamo avuto l’occasione di approfondire direttamente con Mark Neocleous il concetto di pacificazione, declinandolo nello specifico delle strategie di contrasto contro i movimenti che difendono i territori dalle aggressioni speculative.
Oggi pubblichiamo un testo di questo autore, che ripercorre l’evoluzione storica del termine “pacification” nel discorso politico e militare e del suo utilizzo in contesti di aggressione e occupazione coloniale, dall’invasione delle Americhe, alle guerre coloniali francesi di Indocina e di Algeria, alla guerra del Vietnam.
Neocleous si sofferma sull’uso del termine nell’ambito delle teorie della controinsurrezione, elaborate contro i movimenti di liberazione nazionale e contro i movimenti socialisti e comunisti.
“Pacification” è un termine militare, ed è un atto militare, da tempo utilizzato contro i movimenti.
Il suo uso attuale non solo riassume, senza nulla togliergli, i concetti di repressione e di guerra, ma anche tutta una serie di misure che affiancano l’uso della violenza fisica al fine di “ridurre le popolazioni ad una sottomissione pacifica”.
Misure di vario genere, coordinate in maniera coerente, da attivare nella fase della distruzione (intelligence, guerra psicologica, propaganda,creazione di dissenso nel campo nemico, erogazione di servizi e benefici per chi si sottomette), per arrivare dove la violenza fisica non arriva.
Ma soprattutto misure finalizzate alla costruzione di un nuovo ordine, capace di garantire nel tempo la perpetuazione del dominio (costruzione di infrastrutture, attuazione di riforme, progetti di sviluppo).
In questo senso il concetto di “pacification” assume un’accezione molto più ampia di quanto non comprendano i concetti di repressione e guerra.
Da alcuni passaggi del saggio ne emerge la funzione di controrivoluzione preventiva:
“la lotta militare contro l’insurrezione era solo una dimensione di un progetto molto più ampio di creazione di un ambiente socio-politico in cui l’insurrezione non sarebbe riemersa in futuro”.
“le potenze coloniali hanno riflettuto a lungo sulla pacificazione come una guerra per costruire: costruire la civiltà, il mercato, gli ordini sociali in cui la resistenza al capitale viene amputata prima che inizi”.
Sotto questa visuale possono essere inclusi fenomeni molto diversi.
Pensiamo per esempio al piano Marshall nel secondo dopoguerra, attuato per impedire alla rabbia delle popolazioni europee, colpite da lutti, distruzione e fame, di trasformarsi in tentazioni rivoluzionarie, plasmando al contempo la ricostruzione postbellica nel segno di un nuovo ordine di mercato ad egemonia statunitense.
Oppure alla diffusione dell’eroina negli anni ’70 per distruggere i movimenti sociali, o alla costruzione di un'egemonia ideologica pacificante tramite l’industria culturale …
Nel contesto delle lotte antiestrattiviste, sicuramente si configurano come forme di pacification la repressione di piazza e la violenza contro i militanti, la criminalizzazione mediatica e giudiziaria dei movimenti, ma anche la deregulation normativa in materia ambientale, la creazione di ‘tavoli di dialogo’ fini a se stessi, la corruzione di politici e amministratori, la logica delle compensazioni per dividere le comunità.
Le stesse trasformazioni dei territori in seguito alle attività estrattive possono essere considerate come fattori di pacificazione, in quanto elementi permanenti di costruzione di un "nuovo ordine", attorno ai quali le comunità umane sono costrette a conformare le proprie modalità di esistenza/sopravvivenza, sulle ceneri di quelle precedenti.
La miniera, la piantagione, la grande opera, cancellano nel tempo la memoria della natura distrutta e dei modi di vivere preesistenti. Gradualmente entrano a far parte "dell'ordine delle cose", nella coscienza delle generazioni successive.
La pacificazione è dunque una strategia a tutto campo, che mira a consolidare effetti durevoli nel tempo.
Non sempre ci riesce, per fortuna, come bene hanno dimostrato, a loro tempo, l'Algeria e il Vietnam.
Il testo di Neocleous ci offre un interessante approfondimento teorico sulla tematica e un'efficace chiave interpretativa del termine "pacification".
Ne proponiamo, a puntate, la nostra traduzione in italiano.
Buona lettura.
La logica della pacificazione: guerra, polizia, accumulazione/1
di Mark Neocleous
Nel 1957 ci fu una riunione nel quartier generale della NATO in Europa.
Si trattava di uno dei due comandi strategici della NATO dell’epoca, e uno dei presenti era il generale francese Jaques Allard, che pronunciò un discorso su come sconfiggere la rivoluzione.
Nel 1957 la Francia aveva abbandonato la “guerra sporca” in Indocina, ma si apprestava a cominciare una serie di guerre in altri luoghi che non erano certo più “pulite”, e tali guerre venivano intese dall’ufficiale francese e dai suoi alleati NATO come “guerre rivoluzionarie”.
Il problema che stavano affrontando era quello di come vincere queste guerre.
L’opinione di Allard era che la guerra contro i diversi movimenti comunisti e socialisti doveva implicare l’azione militare. Ma Allard suggerì anche che tale azione, da sola, non era sufficiente.
Era anche necessario un secondo tipo di azione, o meglio un ampio congiunto di azioni minori coordinate, che Allard preferiva riunire in quanto funzionavano meglio quando operavano all’unisono.
Questo gruppo di azioni consisteva nella propaganda, nell’azione psicologica sulla popolazione, nell’accumulazione [di informazioni, esperienza, contatti ] da parte dell’intelligence, nei contatti personali con la popolazione e in un insieme di programmi di riforma economico sociale.
In questo modo Allard si riferiva a due tipi di azione: azione puramente militare, però anche un’ampia serie di “altre” azioni (che potrebbero definirsi come “misure poliziali”).
Allard dichiarava: “classificherò queste diverse missioni in due categorie: distruzione e costruzione.
I due termini sono inseparabili. Distruggere senza costruire è un compito inutile; costruire senza aver distrutto prima sarebbe un delirio” (citado in Paret, 1964, p. 30).
In seguito continuò a sviluppare questi termini.
Il significato di “distruzione” è abbastanza chiaro, con il suo riferimento all’azione militare “pura”: implica l’attività coordinata dell’esercito e dei poteri degli Stati alleati per annichilire il nemico.
“Costruzione” significa “costruire la pace”, “organizzare la popolazione”, persuadere il popolo “tramite il ricorso all’educazione”, e in definitiva “preparare l’instaurazione di un ordine nuovo”.
Disse inoltre “questo è il compito della pacificazione”.
In questo momento non voglio passare molto tempo a discutere di un generale francese che la maggior parte [della gente NdT] non ha mai sentito nominare. Tuttavia, ciò che voglio è sottolineare la sua prospettiva: preparare la creazione di un nuovo ordine è il compito della pacificazione.
Voglio usare il suo punto di vista per analizzare la logica della pacificazione.
Nel processo, voglio affrontare due questioni.
La prima, che si basa su argomenti che ho sviluppato in altri testi, è che la "pacificazione" è un concetto molto utile per la teoria critica, in particolare ai fini di una migliore comprensione della violenza (Neocleous, 2011, pp. 23-56; 2013 , pp. 7-31; 2016). La seconda questione è che la "pacificazione" è un concetto così nucleare e utile per comprendere la violenza perché ci consente di analizzare in dettaglio la natura produttiva della violenza.
In particolare, la sua natura produttiva nella fabbricazione dell'ordine capitalista.
Svelare la logica della pacificazione è un modo di combattere uno dei concetti centrali del linguaggio sociale e politico contemporaneo, quello della sicurezza.
Sottolineando queste questioni, sto cercando di sviluppare la critica alla sicurezza.
"La sicurezza è fondamentale per il mantenimento della pace".
Questo punto di vista è stato affermato dal generale statunitense William Westmoreland Childs nel periodo in cui ha guidato le truppe in quel paese in Vietnam (Westmoreland, 1976, pag. 68).
Il suo commento non era affatto raro in quel momento.
Robert McNamara, segretario alla Difesa durante la stessa fase, ha descritto la guerra come "la sicurezza del lavoro e la pace" (McNamara, 1966/1971, p. 596), e Robert W. Kromer, consigliere speciale per la pacificazione tra il 1966 -1968, suggerì che "la sicurezza è la chiave per la pacificazione" (Komer, 1971, p.50).
Gli autori hanno facilmente trascurato questi commenti, comprendendoli come specifici del conflitto in Vietnam, o come un'altra affermazione dell'idea astratta di una guerra intrapresa nel nome della sicurezza. Anche così, c'è sicuramente qualcos'altro in gioco.
Se, come ho discusso in altri testi, abbiamo bisogno di capire la sicurezza non come una sorta di valore universale o trascendentale, ma come una modalità di governo o di una tecnologia politica di costruzione di un ordine liberale, forse la categoria di pacificazione può aiutarci a dare un senso a questo processo.
In altre parole, la sicurezza è la pacificazione, come ho sottolineato altrove.
Pertanto, il concetto di pacificazione deve avere un'importanza fondamentale per la critica della sicurezza.
Per molte persone, il termine "pacificazione" è strettamente legato alla guerra USA-Vietnam, e gli esempi che ho enunciato sembrano rafforzare questa relazione.
Dopo la sua ricezione da parte del governo degli Stati Uniti nel 1964-1965 come sostituto del termine "controinsurrezione", la "pacificazione" è stata la chiave per la strategia statunitense in Vietnam, che ha dato il termine di forti connotazioni di natura imperiale-militare.
Tuttavia, anche la terminologia militare ha ormai abbandonato il termine "pacificazione", in favore di termini più sottili come "conflitto a bassa intensità", "operazioni non belliche" e "fenomeno a scala di grigi" (fenomeno dell'area grigia).
Prendi come riferimento il Manuale di controinsurrezione dell'Esercito degli Stati Uniti e del Corpo dei Marines (US Army and Marine Corps, 2006).
Il testo fa un riferimento occasionale alla citazione e menziona brevemente il Vietnam, ma alla fine assorbe la pacificazione nell'idea di controinsurrezione.
Tuttavia, sorge una domanda: perché dovremmo continuare a parlare di pacificazione, se il termine sembra obsoleto?
Nel 1970, l'organizzazione RAND (Komer, 1970a) pubblicò un rapporto intitolato Organizzazione e gestione del programma di pacificazione "Nuovo modello".
Il testo, scritto da Komer, descriveva gli eventi accaduti in Vietnam dal 1966 e sottolineava il legame tra pace e sicurezza, sottolineando che un tale collegamento implica "una serie di programmi correlati", relativi alla riforma agraria, allo sviluppo economico, strade e comunicazioni.
L'idea della "ripresa" della sicurezza era chiara in quel momento – "la pacificazione richiede, soprattutto, il recupero della sicurezza", ha sottolineato Komer (1970a, p 168), ma la ripresa sarebbe stata un'azione congiunta civile-militare per trasformare la società vietnamita.
La lotta militare contro l'insurrezione era solo una dimensione di un progetto molto più ampio di creazione di un ambiente socio-politico in cui l'insurrezione non sarebbe riemersa in futuro.
In altre parole, la pacificazione implica "azioni di natura poliziesca e programmi costruttivi politico-economici che riguadagnano sicurezza" (Komer, 1970a, p 257).
La pacificazione era intesa come un uso produttivo della violenza, al fine di costruire e garantire un nuovo ordine sociale.
In questo momento, ciò che voglio attingere dalla letteratura sulla “pacification” è questa idea della pacificazione come potere produttivo, e voglio sottolineare come questa idea sia proprio ciò che ci permette di capire meglio la violenza attraverso cui si costituisce la società capitalista.
Preliminarmente facciamo due osservazioni storiche generali.
La prima è che gli Stati Uniti sono andati in Vietnam dopo il fallimento francese nella regione, e i francesi, insieme ad altri alleati della NATO, hanno anche riflettuto sulla natura specifica della pacificazione.
Lo abbiamo già visto nel commento del generale Allard del 1957, con il quale il testo è iniziato, ma ci sono molti altri esempi.
Nel 1960, la principale rivista teorica dell’esercito statunitense, Military Review, pubblicò un articolo che suggeriva che "l'esperienza francese e i suoi problemi meritano l'analisi più attenta e dettagliata da parte dei nostri esperti militari qualificati”, seguito da una serie di articoli all'inizio degli anni '60.
Gli americani tradussero anche La Guerre Moderne, di Roger Trinquier, una serie di riflessioni sulla esperienza dell'autore nell'opera di pacificazione francese, pubblicato originariamente nel 1961.
Per Trinquier, "una guerra è oggi un sistema interrelazionato di azioni – politiche, economiche, psicologiche, militari”.
Allo stesso modo, nel 1963 la RAND Corporation (un centro di ricerca finanziato dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti) commissionò a David Galula di scrivere un’analisi sulla pacificazione francese dell'Algeria.
Galula, che era stato capitano e poi tenente colonnello nell'esercito francese, aveva supervisionato gran parte della pacificazione dell'Algeria, dopo esperienze simili in Cina, Filippine, Malesia e Grecia, e il suo lavoro ha avuto un impatto significativo sulla riflessione statunitense per la pacificazione del Vietnam.
Nel suo rapporto sulla pacificazione dell'Algeria, riflette su un approccio basato sulla "carota nella mano sinistra (…) il bastone nella mano destra" (Galula, 1963 / 2006a, pagina 269).
L’opportunità offerta dalla RAND gli permise di sviluppare questi punti.
“L'ordine era "pacificare". Ma come, esattamente? La triste realtà era che, nonostante tutte le nostre precedenti esperienze, non esisteva una sola dottrina ufficiale sulla guerra anti-insurrezione.
Al contrario, c'erano diverse scuole di pensiero, tutte informali, e alcune molto rumorose (…)
A un estremo c'erano i "guerrieri", ufficiali che non avevano capito nulla, che mettevano in dubbio l'idea che la popolazione fosse il vero obiettivo, e sosteneva che se un'azione militare si sviluppava vigorosamente e per un tempo abbastanza lungo avrebbe sconfitto i ribelli (…)
All'altro estremo c'erano gli "psicologi" (…) Per loro, l'azione psicologica era tutto, non semplicemente mera propaganda e azione psicologica aggiunte ad altri tipi di operazioni, convenzionali o meno.
"Usiamo la forza contro il nemico", mi ha detto uno dei sostenitori di questa opzione, "non tanto per distruggerlo, ma per far cambiare la sua prospettiva sulla necessità di continuare la lotta, in altre parole, facciamo un'azione psicologica" (Galula, 1963 / 2006a, pp. 64-65).”
Il rapporto di Galula si dedica fondamentalmente ad analizzare la lotta per conquistare il controllo e l’appoggio della popolazione attraverso “unità di pacificazione” collocate in “zone di pacificazione”, e realizzando attività di assistenza medica, educative e ideologiche, tutto in nome della “sicurezza”.
Un anno dopo Galula sviluppò i suoi argomenti in un libro denominato Counterinsurgency Warfare: Theory and Practice (Galula,1964/2006).
Un'importante questione da aggiungere in relazione alle pubblicazioni citate: tutte sono state recentemente ristampate negli Stati Uniti, durante i primi anni della "guerra contro il terrorismo", all'incirca nello stesso periodo della pubblicazione del Manuale di Controinsurrezione sul Campo degli Stati Uniti . Potremmo descrivere tali pubblicazioni come le basi del pensiero teorico sulla "guerra contro il terrorismo" come forma di pacificazione.
La conoscenza sviluppata dagli esperti francesi risale a molto tempo fa, deriva in particolare da una serie di pensatori che oggi chiameremmo "teorici della controinsurrezione", ma che erano, oltre che militari leader nel processo di colonizzazione, anche pensatori riguardo alle questioni chiave della pacificazione.
Pensatori come il tenente colonnello Louis Hubert Gonzalve Lyautey e il generale Joseph Galliéni alla fine del XIX secolo e inizio del XX, e prima di loro il maresciallo Thomas-Robert Bugeaud, a metà del secolo XIX.
Ciò che è significativo di questa serie di pensatori è che, nonostante le differenze tra loro, tutti parlano di pacificazione tanto come la costruzione di un nuovo ordine, quanto come la distruzione di un vecchio ordine.
Bugeaud, per esempio, fu inviato in Algeria per rompere la resistenza alla colonizzazione francese.
A questo fine abbandonò il modello della guerra "napoleonica" facendo proprie le modalità della guerriglia, la cui chiave risiede in una guerra di movimento, con al centro l’uso di colonne mobili e della fanteria leggera, il saccheggio dei magazzini di grano e l’attacco alle mandrie degli algerini.
L’intenzione non era quella di impegnarsi in battaglie condotte da truppe “civilizzate”, ma di impiegare tattiche non convenzionali per distruggere il nemico, distruggendo i suoi raccolti, il bestiame, le sue città ei suoi villaggi.
Era razzia, una tecnica impiegata fin dai tempi antichi in Africa, nella quale il livello di violenza – diretta e immediata – era enorme, giacché le truppe perlustravano il paese uccidendo e bruciando, dividendo e
devastando al loro avanzare.
Per Bugeaud, la razzia era totale.
Tuttavia, nello stesso tempo in cui perfezionavano il sistema di distruzione, i metodi di Bugeaud implicavano il tentativo di ricostruire il terreno mediante l’introduzione di nuove strade, case e mercati: “quando gli arabi si sono sottomessi” – commentava nel 1847 – “ gli do il migliore trattamento possibile e li governo con umanità” (citato in Thrall Sullivan, 1983, p.105)
Di conseguenza, spese una notevole quantità di tempo ed energie distribuendo materiali da costruzione, semi, animali, attrezzature agricole e distribuendo terreni per i nuovi villaggi modello.
Diede consigli sul giardinaggio, guadagnandosi il soprannome di "Grande giardiniere capo".
In breve: distruggerli, ma anche trattarli con umanità; saccheggiarli, ma anche dare loro il miglior trattamento possibile; distruggere le loro colture, ma anche insegnare loro il giardinaggio.
In altre parole, combinare la violenza diretta con una governance più produttiva.
"Il modo migliore per raggiungere la pace nella nostra nuova colonia è attraverso l'applicazione combinata della forza e della politica" (Galliéni, 1900/1994, pag. 814).
Questa è un'affermazione di Galliéni, pronunciata mezzo secolo dopo. Con "forza" e "politica" significava rispettivamente "distruzione" e "ricostruzione".
“Nel contesto delle lotte coloniali, dobbiamo ricorrere alla distruzione solo come ultima risorsa, e solo come preparazione per migliorare la ricostruzione. Dobbiamo sempre trattare con considerazione il paese e i suoi abitanti, poiché il paese è destinato a ricevere le nostre future imprese coloniali, e gli abitanti saranno i nostri principali agenti e collaboratori nello sviluppo di tali imprese.
Ogni volta che le necessità della guerra obbligheranno uno dei nostri agenti coloniali ad agire contro un popolo o un luogo abitato, la sua prima preoccupazione, una volta raggiunta la sottomissione degli abitanti, deve essere la ricostruzione della città, la creazione di un mercato e l'istituzione di una scuola” (Galliéni, 1900/1994, pagina 814).
"Distruzione" e "ricostruzione" vanno di pari passo. Tuttavia, sebbene "la pacificazione di un paese e la sua futura organizzazione siano raggiunti attraverso l'uso combinato della politica e della forza", "l'azione politica, di gran lunga, è la più importante", e deriva " dall'organizzazione del paese e dei suoi abitanti (Galliéni, 1900/1994, pag. 814).
In questo modo, ciò che conta sono la politica e la ricostruzione (o, potremmo dire: ricostruzione politica), perché in questo consiste la vera pacificazione:
"Un paese non viene conquistato o pacificato quando un'operazione militare ha decimato e terrorizzato la sua popolazione" (Galliéni, 1900/1994, pag. 815).
Al contrario, "mentre la pacificazione guadagna terreno, il paese diventa più civile, i mercati si riaprono, il commercio viene ripristinato, il ruolo del soldato diventa secondario, inizia l'attività dell'amministratore" (Galliéni, 1900/1994, pagina 815). Come sottolinea Lyautey: "durante il periodo successivo alla conquista, il ruolo delle truppe si riduce alla funzione di polizia, che viene presto rilevata da truppe speciali, la polizia militare e civile" (Lyautey citado en Gottman, 1943, pp. 243-244).
Il riassunto storico generale che sto esponendo si riferisce al fatto che le potenze coloniali hanno riflettuto da molto tempo sulla pacificazione come una guerra per costruire: costruire la civiltà, il mercato, gli ordini sociali in cui la resistenza al capitale viene amputata prima che inizi.
Va notato in che maniera sorge questa idea di costruzione.
La pacificazione è una violenza destinata a costruire tanto quanto distruggere.
Ricordiamo il commento di Allard: dobbiamo costruire la pace.
Se torniamo brevemente al Vietnam, vediamo che una delle frasi chiave usate dagli americani che stavano combattendo in quella guerra era "Build – Ensure – Clear".
Questa fu un'inversione della modalità francese di pacificazione “Clear – Ensure – Build”.
E se andiamo avanti, fino al Manuale di controinsurrezione del 2006 dell'esercito americano e dei corpi dei Marines – il principale manuale utilizzato nella "guerra contro il terrorismo" – cosa troviamo?
Un principio simile: "Clear-Maintain-Build" (Esercito degli Stati Uniti e Corpo dei Marines, 2006, sezioni 5-50-5-51). In ogni caso, l'importante è "costruire".
La seconda osservazione di storia generale che voglio fare incide maggiore su questa argomentazione perché la pone al centro dell'idea di pacificazione fin dal suo esordio come idea politica.
Il termine "pacificazione" ha una storia molto più antica delle guerre coloniali del diciannovesimo e del ventesimo secolo.
Di fatto, la "pacificazione" entra nel moderno discorso politico alla fine del sedicesimo secolo.
In inglese, la parola "pacificazione" appare per la prima volta negli editti di pacificazione del 1563 e del 1570, che descrivono i poteri usati dal principe o dallo Stato "per porre fine a un conflitto o malcontento" e per "ridurre ad una sottomissione pacifica " una determinata popolazione.
[il riferimento è agli editti di pacificazione – editto di Amboise, editto di Saint Germaine- promulgati da Carlo IX di Francia nell’ambito delle guerre di religione fra cattolici e ugonotti. NdT].
Le date sono importanti in quanto riportano direttamente al periodo di una prima accumulazione globale e alla storia del capitale; in altre parole, sono il punto di partenza per l’esercizio della violenza in nome dell'ordine borghese.
D'altra parte, tutto ciò era strettamente correlato al progetto coloniale.
Filippo II arrivò a credere che la violenza inflitta nella conquista delle colonie stesse causando un certo malcontento tra la sua stessa popolazione. Ed è così che nel luglio del 1573 proclamò che tutte le future estensioni dell'impero fossero chiamate "pacificazioni" e non come "conquiste":
“Le scoperte non saranno chiamate conquiste. Nella misura in cui vogliamo portarle avanti in modo pacifico e caritatevole, non vogliamo usare il termine "conquista" per offrire scuse che porterebbero all'uso della forza o causare danni agli indios… Senza mostrare alcun avidità per i possedimenti degli indiios, loro [gli scopritori ", i "conquistadores "] devono stabilire una cooperazione amichevole con i signori e i nobili che sembrano più propensi a fornire sostegno alla pacificazione della terra” (citato in Todorov, 1984 , p 173).
Per quanto riguarda le istruzioni per questa pacificazione:
“Loro [i “pacificatori”, i conquistatori] devono raccogliere informazioni sulle tribù, le lingue e le divisioni degli indios della provincia … Devono cercare di fare amicizia con loro attraverso il commercio e il baratto, mostrando loro un grande amore e tenerezza e dare loro gli oggetti che apprezzano … Affinché gli indios possano ascoltare la fede con maggiore timore e riverenza, i sacerdoti devono portare la Croce … I sacerdoti devono anche persuaderli a costruire chiese dove si possa insegnare e dove possano sentirsi più sicuri.
Con questi e altri mezzi, gli indiani saranno pacificati e indottrinati, ma in nessun modo saranno danneggiati perché ciò che cerchiamo è il loro benessere e la loro conversione” (citata in Todorov, 1984, pp. 173-174).
Se questa è violenza, è violenza costruire e ricostruire un nuovo ordine sociale, e fondamentalmente un ordine organizzato attorno alla costruzione di un mercato.
Queste stesse idee si trovano nel primo trattato dettagliato sulla pacificazione scritto da un pensatore militare, il capitano Bernardo de Vargas Machuca nella sua Milizia indiana (1599).
Questo testo è a tutti gli effetti il primo manuale controrivoluzionario globale in situazioni di conflitto armato, ma è stato largamente ignorato nelle analisi convenzionali della rivoluzione militare di questo periodo, che pone l'accento sulla centralizzazione della violenza e sulla burocratizzazione e disciplina degli eserciti.
Come tutte le grandi potenze del XVI secolo, la Spagna era coinvolta in un contesto di relazioni militari su larga scala con altre nazioni, ma era anche coinvolta nella colonizzazione di altre terre.
La colonizzazione richiedeva un tipo molto diverso di violenza politica, ed è alla luce di ciò che Machuca scrive il suo manuale sugli scontri militari con gli indigeni.
Machuca ignorò il modello generalizzato del conflitto armato europeo e sostenne invece che nelle colonie era necessario un diverso modello tattico, un modello che richiedeva un diverso tipo di conoscenza ed esperienza e si basava sull'adozione di metodi nativi.
Puntava sulla creazione di gruppi in stile commandos per svolgere missioni di ricerca e distruzione all'interno del territorio indigeno per un periodo di due anni, e nel frattempo adottava le modalità indigene di sopravvivenza.
L'idea di Machuca, in altre parole, non era l'idea classica degi scontri militari basati su unità nazionali organizzate militarmente che si confrontavano tra loro. Piuttosto, la sua idea era quella di un impero che doveva confrontarsi con popolazioni autoctone ribelli e recalcitranti.
Machuca credeva che per combattere contro queste popolazioni l'impero avrebbe dovuto adottare i metodi di queste popolazioni.
Tali metodi, sosteneva, erano stati appresi da lui, "dopo ventotto anni trascorsi nelle pacificazioni degli indios" (Machuca, 1599/2008, p.7).
La pacificazione è, da un lato, una violenza brutale e sanguinaria associata alle atrocità effettuate durante il periodo coloniale, che comprendevano atti quali bruciare vivi i ribelli, procedere ad esecuzioni sommarie e annegamento occasionale di bambini.
D'altra parte, Machuca insisteva sul fatto che agli indiani doveva essere garantito "un giusto trattamento ":
“La distribuzione e l'assegnazione degli indios alle loro encomiendas deve essere effettuata con l'approvazione delle autorità locali, dovrebbero essere concessi greggi, doni e cure, e i comandanti dovrebbero eseguire censimenti. In breve, dovrebbero governare "in pace" (Machuca, 1603/2010, p.
33).
Pace?
Secondo l’Oxford English Dictionary, quando la parola "pacificazione" è entrata nel discorso politico, alludeva ad "un processo o ad un'operazione (di solito un'operazione militare) progettata per assicurare la cooperazione pacifica di una popolazione in un'area dove si pensa che i nemici siano attivi”.
Pacificare è "ridurre a una sottomissione pacifica".
Mutuando considerazioni della tradizione romana sostenuta dalla gloria imperiale attraverso la dominazione militare, la pacificazione implicava l'imposizione della pace.
La "pacificazione" era intesa come un processo per costruire la pace, il termine "pacificatore" appare in quello stesso periodo.
Al contrario, si potrebbe anche rilevare che la pax supponeva l’attuazione della "pacificazione".
Inoltre, questa connessione si riferiva non solo alla pace imposta da qualche parte lontana delle colonie, ma anche alla costituzione di una pace interna all'attività politica nel suo insieme, in un luogo vicino.
In altre parole, fin dalle sue origini, il termine "pacificazione" ha contenuto l'idea della creazione di un certo tipo di pace e, con essa, la creazione di un certo tipo di ordine e sicurezza.
Potremmo dire che la pacificazione è un atto militare, adornato come si trattasse della "pace" di una società civile, raggiunta attraverso la costruzione di nuovi ordini chiamati "sicurezza".
Pertanto, potremmo anche dire che il tempo e lo spazio della modernità borghese possono essere intesi come il tempo e lo spazio della pacificazione.
Questo è, contemporaneamente, il tempo e lo spazio del potere poliziale.
"Mantenere la pace" e assicurare uno spazio sociale pacificato è, più o meno, la definizione di potere poliziale, ed è con l'ascesa della modernità borghese che la categoria di "polizia" (‘Policey’, ‘Policei’, ‘Polizei’) è divenuta centrale nel pensiero politico, mettendo in evidenza la regolamentazione amministrativa e legislativa della vita interna di una comunità al fine di promuovere il benessere generale e le condizioni necessarie per un buon ordine.
Questa prima idea di "polizia" non è la polizia degli "studi di polizia" così come si sono sviluppati nell'università moderna.
Gli studi di polizia si concentrano su una cosa chiamata "la polizia", che riguarda l'esecuzione della legge e il controllo della criminalità, ma dietro a ciò c'era l'imposizione di un significato al termine "polizia" da parte di un liberalismo sempre più egemonico tra la fine dal 18° secolo e l'inizio del 19°.
Esiste, tuttavia, una concezione molto più ampia e antica della polizia, il cui principale fondamento era il "buon ordine" nel senso più ampio possibile, compreso il controllo del crimine e l'esecuzione della legge, ma estendendosi attraverso della regolamentazione del lavoro e del commercio, la disciplina del lavoro, il processo di educazione e apprendimento, il benessere e la salute, i dettagli della vita sociale e, naturalmente, qualsiasi cosa intesa come un'infrazione della "pace".
In un mio precedente lavoro ho cercato di recuperare questa più ampia e antica concezione della polizia e di collocarla al centro di una teoria critica del potere statale.
L'idea era quella di suggerire che la "polizia" dovesse essere intesa meno nei termini di un'istituzione chiamata polizia e più in termini di una vasta gamma di poteri attraverso i quali si fabbrica l'ordine sociale e vengono costituiti i soggetti attraverso – il potere poliziale – un insieme di agenzie di polizia situate in tutto lo stato e istituzioni che amministrano la società civile (Neocleous, 2000).
Questo è un potere di polizia inteso come un principio globale per creare – per costruire – un corpo sociale a partire da cittadini/soggetti individuali.
In ogni caso, il potere poliziale è fondamentalmente un insieme di misure per la produzione del lavoro salariato.
Il potere poliziale presuppone una serie di dispositivi e tecnologie attraverso cui si costituiscono l'ordine politico in generale e il diritto del lavoro in particolare.
In questo quadro di buon ordine, la funzione chiave della polizia è quella di "mantenere la pace".
In realtà, è più che mantenere la pace: è la fabbricazione coercitiva di un ordine sociale che la classe dominante potrebbe definire "pacifico".
Dal punto di vista della teoria critica, dobbiamo capire questo processo come una guerra sociale per costruire e poi ricostruire l'ordine borghese.
Questo è ciò che intendiamo per pacificazione: l'articolazione di uno spazio per la costruzione di un ordine sociale organizzato attraverso l'accumulazione e il denaro. Da questo punto di vista, la pacificazione è una guerra di classi: l'esercizio della violenza nella colonizzazione sistematica del mondo da parte del capitale per costruire un ordine borghese.
La "colonizzazione sistematica" è un termine usato da Karl Marx nel primo volume del Capitale per descrivere la natura della violenza capitalista (o "la cosiddetta accumulazione primitiva").
Marx trae l'idea della colonizzazione sistematica degli autorevoli studi sull'accumulazione coloniale di Edward Gibbon Wakefield.
Wakefield fu la figura chiave di un movimento degli anni '30 del 19° secolo che cercò di rianimare l'arte perduta della colonizzazione e Marx adotterà, secondo noi, con entusiasmo quest'arte come il segreto fondamentale dell'accumulazione primitiva. L'accumulazione primitiva è il processo attraverso il quale si costituiscono le relazioni sociali capitaliste come separazione della popolazione dai mezzi di produzione (Marx, 1858/1973, p 489).
Questo processo è di evidente importanza storica, poiché senza il processo di separazione dei lavoratori dai loro mezzi di produzione, il capitale non avrebbe potuto nascere; senza una tale separazione non poteva esserci un'accumulazione capitalista. Il segreto dell'accumulazione primitiva è che "l'offerta di lavoro deve essere costante e regolare" (Marx, 1861-1894 / 1976, p.939).
Ma Marx sottolinea che ci sono due dimensioni inerenti a questo segreto.
La prima allude alla realtà delle relazioni capitaliste sia nella metropoli che nelle colonie.
La seconda è che non si tratta di un processo storico già completato, ma di un processo permanente costantemente riattualizzato.
Pertanto, la "colonizzazione sistematica" riguarda un processo inerente al capitale come sistema, piuttosto che riferirsi a uno specifico periodo storico o uno spazio geografico.
Ciò a cui Marx sta facendo riferimento è la violenza usata per produrre l'ordine capitalista (Marx, 1861-1894 / 1976, pp. 915-916).
Il capitale di Marx, quindi, deve essere letto, come afferma Etienne Balibar, come "un trattato sulla violenza strutturale che il capitalismo infligge" (Balibar, 2009, p.99) affinché il capitale possa essere creato e ricreato mentre viene costruito e assicurato l'ordine borghese.
La violenza, tuttavia, non solo assume la forma dell'arma o della clava ma viene anche esercitata attraverso l'apparato statale ed il sistema monetario nel suo insieme.
O come è stato recentemente formulato: "il denaro come munizione" (Esercito degli Stati Uniti e Corpo dei Marines, 2006, pag. 49).
Il capitalismo sempre e ovunque è coinvolto in una violenza proiettata contro ogni forma non capitalista che incontra. La violenza strutturale in questione, quindi, è una guerra in cui tutto il mondo diventa un campo di battaglia.
Il capitale ordina: “Che ci sia l'accumulazione!” e si presta a costruire un ordine sociale per tale scopo.
Questa è la chiave per la pacificazione.
Parlare della violenza che ha dato origine al capitalismo e del capitale stesso come forma di violenza significa parlare fondamentalmente, come ho suggerito, di guerra di classe.
Ciò significa che se la teoria critica usa la categoria della "guerra", dobbiamo estenderla al di là del suo tradizionale quadro militare.
Sto suggerendo, di conseguenza, che il meccanismo attraverso il quale le persone sono messe al lavoro nelle condizioni stabilite dal capitale è una forma di guerra.
In un modo convergente, questa è una forma di guerra condotta attraverso il potere poliziale.
Come concetto, la "pacificazione" ci consente di comprendere questa combinazione tra guerra e polizia in termini diaccumulazione. La costruzione dell'ordine sociale è storicamente un progetto poliziale, ma è un progetto attraverso il quale il capitale si costituisce come capitale e il lavoro salariato si costituisce come lavoro salariato.
Questa violenza del capitale significa che dobbiamo davvero comprendere la guerra di classe come una guerra.
Un'ultima considerazione. Ci viene costantemente detto che stiamo vivendo un periodo in cui i poteri di guerra e poliziali stanno confluendo.
Ci viene detto in modo ricorrente che stiamo assistendo a "una politicizzazione dell'esercito" e "una militarizzazione della polizia".
In contrasto con queste affermazioni, il concetto di pacificazione ci permette di comprendere i poteri convergenti della guerra e della polizia e capire che questi poteri sono sempre stati convergenti.
Le implicazioni di questo argomento sono che le considerazioni sulla "politicizzazione dell'esercito" e "la militarizzazione della polizia" si basano su una dicotomia liberale tra "la polizia" e "l'esercito".
Ma dal punto di vista della teoria critica questa dicotomia non ha significato.
Dal punto di vista della teoria critica, i poteri della guerra e della polizia hanno sempre lavorato congiuntamente come strumenti attraverso cui si costituisce l'ordine sociale.
Allo stesso modo, l'approccio secondo cui "la guerra è diventata poliziale" che si trova in varie discipline e in vari tentativi di pensare criticamente alla guerra, fa poco per mettere in relazione la "guerra" e la "polizia" e getta poca luce su entrambe. Ripetendo più o meno la concezione liberale della polizia, finisce per mistificare piuttosto che spiegare.
Al contrario, la teoria critica della pacificazione presuppone che la guerra e la polizia siano congiunte da sempre. Affermare questo non significa riferirci a un'istituzione chiamata "esercito" e al modo in cui è collegata a un'istituzione chiamata "polizia".
Da una prospettiva critica, questa distinzione è irrilevante poiché è propria di una tendenza generale liberale che si ripete attraverso le scienze politiche e sociali, quella che semplifica la complessità del potere statale in un insieme di dicotomie: diritto / amministrazione, costituzionale / eccezionale, normalità / emergenza, tribunali ordinari / tribunali speciali, legislativo /esecutivo, Stato / società civile e, naturalmente, esercito / polizia. Di fronte a questo, dobbiamo pensare alla guerra e alla polizia come a processi che lavorano insieme come parte del potere statale e per la costruzione dell'ordine sociale borghese.
(*) Mark Neocleous è docente di Critique of Political Economy presso il Department of Social and Political Sciences della Brunel University di Londra. È autore di numerosi importanti testi (qui una selezione) di critica al potere poliziale.
(**) Le immagini sono di Roberto Mastai
– Per la versione in spagnolo:
La lógica de la pacificación: guerra, policia, acumulación
Mark Neocleous
Athenea Digital – 16(1): 9-22, marzo 2016.
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