AL BASSONE FA UN CALDO FOTTUTO

Oggi, 14 luglio, si svolge la terza udienza del processo a unx compagnx per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e manifestazione non autorizzata. Le accuse risalgono al 9 febbraio, giorno in cui si è voluto fare un saluto al carcere del Bassone a Como. Cogliamo l'occasione per riparlare di quella giornata e formulare alcune delle tesi che ci hanno portatx ad essere lì.

Il saluto è stato breve ma rumoroso, comunicativo, un momento di rottura con la quiete apparente dell'oasi del Bassone, dove è situato il carcere. Oasi naturale in cui si trovano boschi, prati e paludi e centinaia di specie animali diverse, a formare un ecosistema particolarmente raro. Abitanti della zona portano i cani a spasso in questa località, così come gruppi di amici e famiglie la domenica scelgono di allontanarsi un po' dalla frenesia della città per trovarvi un po' di silenzio e camminare nella natura.

Si deve portare con sè una buona dose di indifferenza per non accorgersi della struttura detentiva che fa parte del paesaggio, per non domandarsi mai, mentre si assaggia la libertà che la natura suggerisce, del perchè di quelle alte mura e della solida recinzione di metallo che si riescono sempre a vedere con la coda dell'occhio. A chi gira la testa e si ferma a guardare, che pensieri vengono in mente? Le centinaia di esseri umani recluse tra quelle mura sono invisibili, già nascoste alla città per la posizione così strategicamente periferica, e nascoste così anche all'occhio di chi ci passa a fianco. L'architettura carceraria trova la sua giustificazione in ragioni di sicurezza, ma cerca anche in ogni modo di risultare indifferente alla società esterna. Allontanare il carcere dalla città, nasconderlo, apre la strada al suo essere dimenticato. Ma ad essere dimenticate là dentro sono le persone stesse, qualunque sia il motivo della loro prigionia. Non sono le loro vite ad essere importanti, ma fare in modo che non si generi mai il dubbio che rinchiudere delle persone, privarle della possibilità di dare senso al tempo che passa, punirle, dimenticarle, possa non essere la soluzione.

La necessità del carcere è data per scontata dalla grande maggioranza delle persone, sia che lo subiscano sia che se ne avvalgano per i propri interessi. Una soluzione facile, immediata, che non chiede ragionamenti ulteriori, non chiede sforzi ma solo una grande delega della violenza punitiva all'istituzione carceraria e a chi ci lavora dentro. Sebbene le riforme carcerarie abbiano cercato di porre come obiettivo secondario alla punizione anche la rieducazione – affinchè il carcere non potesse più essere definito e attaccato come un'insensata istituzione il cui fine era solamente la vendetta dello stato sull'umanità deviante – queste sono intrinsecamente violente e punitive a loro volta, quasi a dire:

"non ti sei volutx adattare a come funziona la società ora? hai provato a trovare i tuoi mezzi per cavartela invece di sottometterti, invece di accettare la dominazione, la disuguaglianza, l'assenza di libertà? impara a farti opprimere, è l'unico modo in cui puoi condurre una vita al di fuori di queste mura."

Finchè non avranno imparato ad accettare che la società non può fare a meno di essere divisa tra dominanti e dominati, e che questo secondo posto si deve occupare in silenzio e con rispetto, possono essere dimenticatx dal mondo. E al mondo, alla gente, a noi, si vuol far credere che tutto questo non si possa cambiare, e che a meno che deleghiamo la risoluzione dei problemi a qualcun altro non ci possa essere vita comune. Come vogliamo veramente che le comunità di cui facciamo parte si costruiscano, quali obiettivi vorremmo avere per esse passa in ultimo piano. Siamo privatx degli strumenti per cambiare le nostre vite, per gestire diversamente i problemi che si generano nei rapporti interpersonali, per immaginare scambi economici che non prevedano lo sfruttamento di chi non ha il potere o la volontà di prevalere sull'altrx. Il carcere e la società che ha bisogno della sua esistenza si riproducono a vicenda da più di due secoli. Non da sempre quindi. E a dispetto di chi lo vuole far credere, non siamo nell'età dell'oro del progresso umano, e il carcere oggi non si può considerare la soluzione più intelligente ed efficace che la civiltà umana potesse trovare per risolvere i conflitti e mantenersi integra.

Esistono svariate modalità di riunirsi in società, ma qui si è scelta la società della disuguaglianza; bisogna smettere di considerare questa tendenza come qualcosa di insito nell'essere umano e non come il frutto di secoli di sopraffazioni. E non sarà di certo un pezzo di carta che sancisce i diritti umani e cerca di limitare i danni di questo sistema ad assicurare equità tra le persone, ma la trasformazione radicale dei rapporti sociali e la distruzione delle istituzioni di potere che costantemente la negano. Tra queste spicca per importanza il carcere, che, lo ripetiamo, non potrebbe esistere senza una cornice all'interno di cui riprodursi e senza un sistema che ne generi costantemente il bisogno. L'alleanza tra carcere e diritto penale, con cui ammettiamo che i nostri valori e le nostre comunità vengano "tutelati", è uno strumento tecnocratico messo in campo per dividere, escludere, incapacitare e neutralizzare la massa che il popolo forma. Una massa che ha finito per assoggettarsi al potere, che ha sacrificato la propria libertà e il proprio pensiero critico in cambio di una pace e un benessere apparenti, concessi. Come non accorgersi che il carcere è solamente lo specchio estremizzato della società esterna, l'apice delle regole che noi tuttx accettiamo ci vengano imposte? Come non vedere che la prima di queste regole è l'accettazione di un mondo in cui domina lo sfruttamento di un essere umano sull'altro?

Il lavoro salariato è una forma edulcorata di schiavitù e chiunque può fare qualsiasi cosa senta necessaria per sfuggire a questo destino. Ma, se con mezzi più o meno semplici si tenta di scardinare le regole che mantengono la struttura sociale così com'è, ecco che interviene la logica carceraria a mantenere la divisione tra dominanti e dominatx. Se non si risulta utili al progresso di un mondo che amplia sempre di più il divario tra ricchi e poverx, non si contribuisce alla ricerca di potere e ricchezza dei primi a scapito dex secondx, o non si accetta di adottare una mentalità imprenditoriale e di sopraffazione entrando a far parte dei primi, ecco che si viene esclusx, allontanatx o direttamente toltx di mezzo. Che cosa i governi neoliberali possano arrivare a fare lo stiamo vedendo in maniera eclatante con il genocidio di israele contro i palestinesi, scomodi per le mire espansionistiche del capitalismo israeliano e globale, come testimoniano il silenzio e l'immobilità dei governi, complici.

La capacità di affrontare i problemi in cui normalmente può incorrere una comunità è un punto di forza, ed ecco invece che intervengono polizia, carcerieri, giudici, psichiatri, assistenti sociali, esperti di questo e di quell'altro problema sociale per neutralizzare quella forza comunitaria che potrebbe far emergere nuove forme organizzative sfuggenti al controllo statale. Se queste fossero lasciate esistere e fossero fondate sugli obiettivi di mutuo appoggio e solidarietà, su un rifiuto delle gerarchie di potere e sulla democrazia diretta, le "masse" potrebbero accorgersi che questo non è l'unico sistema possibile: sarebbe inaccettabile per gli stati e le aziende. Non c'è da stupirsi nel vedere come e quanto anche la solidarietà stessa, in quanto punto di forza di una comunità e concreto attacco alle logiche di dominio, venga criminalizzata.

Nel salutare le persone detenute, nell'abbattimento simbolico delle mura e delle sbarre per qualche minuto per chiedere "come state?", per lanciare un messaggio di supporto, per ricevere qualche notizia, si prova a dar forma all'istinto di solidarietà che ci è proprio. Non saranno report o inchieste spersonalizzanti ad avvicinarci alle voci e azioni di resistenza che ogni giorno vengono messe in atto dalle persone dentro, che si trovano a dover sopravvivere senza libertà alcuna. La struttura carceraria e la logica che le dà forma sono costruite appositamente per far sì che le voci da dentro, qualsiasi cosa vogliano esprimere, non si sentano all'esterno. L'impossibilità comunicativa è palese. Attraverso il saluto proviamo a metterci in ascolto e ci arriva tutta la rabbia, il dolore, l'impotenza di vite private del loro senso e obbligate a sopravvivere in un ambiente deumanizzante. Del carcere del Bassone sappiamo che non può vantare nemmeno condizioni materiali decenti per lx detenutx. Il cibo è di scarsa qualità, se non scaduto, e comprarlo con lo spesino risulta molto costoso, per cui spesso sono i familiari a doversi occupare di portarlo allx detenutx. L'igiene nelle celle e negli spazi comuni è pessima e facilita il diffondersi di malattie come la scabbia. "D'estate al Bassone fa un caldo fottuto". Il clima è sempre più teso e invivibile anche a causa del sovraffollamento, che riduce di molto l'accessibilità delle attività "rieducative". Di fronte alle criticità, nulla cambia. Che senso ha dunque aspettarsi che sia l'istituzione carceraria stessa a far fronte a questi problemi se la vediamo preoccuparsi solo quando a subire gli effetti del marciume di questo sistema è un agente della penitenziaria?

Il carcere fa parte della società in cui noi tuttx viviamo e gran parte di noi accetta la sua esistenza perchè sembra assicurare una pace – che è però solamente illusoria. C'è però chi non crede che perchè una comunità rimanga integra ci sia bisogno di un luogo dove rinchiudere menti e corpi ritenuti problematici, ignorando e silenziando i motivi per cui quei problemi si generano. Per chi spera in un cambiamento di questo ordine sociale le risposte sembrano essere chiare: censura, repressione, allontanamento. E' ovvio che quest'ordine e queste risposte esistano a protezione di qualcuno che ha la forza per imporle: lo stato e i suoi interessi. E gli interessi dello stato non sono quelli delle comunità ma quelli di un sistema economico fondato sulla prevaricazione.

Lunedì 14 luglio è a processo una persona che ha provato ad opporsi a tutto ciò tramite l'espressione della solidarietà. Chi lx accusa ha dalla sua parte il monopolio della violenza e del potere e lo utilizza per spegnere sul nascere qualsiasi forma di dissenso e divergenza. Fuori e dentro si rispecchiano, nel controllo e nella sorveglianza sulle nostre azioni e sui nostri pensieri, sui nostri bisogni e i modi attraverso cui li esplicitiamo. Chi vi sfugge viene zittitx. La solidarietà diventa reato. Una scritta su un muro per denunciare un genocidio in corso diventa teppismo. Un saluto a un carcere è una minaccia; la comunicazione tra il dentro e il fuori fa vacillare questo sistema coercitivo di dominazione e non può restare impunita. Crimini e reati vengono continuamente costruiti in base ai bisogni della classe dominante, a sua volta costruita sull'illusione che il denaro governi questo mondo.

Per questo riteniamo necessaria la distruzione di ognuna di queste strutture, fino a che di una sola galera non rimarrà una sola pietra. Per questo continueremo ad andare ad ascoltare le voci dex detenutx e a far sentire loro le nostre. Per questo non smetteremo di cercare di rompere gli isolamenti a cui questo sistema ci sottopone.

FUOCO ALLE GALERE

alcun3 anarchich3 di zona